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Intervista esclusiva di Paolo Camozzi, Slow Wine: i segreti del vino perfetto

Paolo Camozzi, vice curatore nazionale della guida Slow Wine, il punto di riferimento per il settore, ci ha raccontato il suo rapporto con il vino e che cosa si cela dietro la sua produzione. Un lavoro affascinante e ancora in larga parte sconosciuto.

Lo scrittore Johann Wolfgang von Goethe diceva: “La vita è troppo breve per bere vini mediocri”. Un vino è un intero mondo: sa di terra, di mani sapienti che coltivano le vigne, di profumi e ricordi, tutti racchiusi in un bicchiere. Non si tratta solo di sapere se ha un buon sapore, ma appunto c’è dell’altro: una storia da raccontare.

Paolo Camozzi in una vigna dell’Etna

Paolo Camozzi, 38 anni vogherese di adozione, da anni si dedica alla cultura del vino attraverso non solo corsi e degustazioni, ma anche come vice curatore nazionale della guida di Slow Wine, il punto di riferimento dell’eccellenza Slow Food per ciò che concerne appunto al vino. In esclusiva per noi di Mezzokilo ci ha parlato della sua conoscenza e di che cosa beviamo, per davvero.

Paolo Camozzi: “Insegno ad appassionarsi al vino con leggerezza e consapevolezza”

Qual è il tuo percorso di studi?

Ho studiato presso l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo; un percorso iniziato nel 2004, l’anno in cui è stato avviato il primo corso. Prima semplicemente non esisteva, non solo l’università, ma neppure un approccio accademico al mondo dell’enogastronomia e alle sue interconnessioni con ambiente, economia, paesaggio, discipline umanistiche e scientifiche. Questo corso di studi, concluso nel 2010 con la Laurea Magistrale in Promozione e gestione del patrimonio gastronomico e turistico, mi ha aperto al settore e ai suoi intricati ambiti che riguardano la gastronomia nella sua ampia concezione multidisciplinare.

Come nasce la passione per il vino?

Nasce da ragazzino, ancor prima di Pollenzo, sebbene non provenga né da una famiglia di appassionati del settore, né abbia vissuto in una zona di produzione. In maniera piuttosto originale rispetto a colleghi e amici del settore che hanno quasi sempre un passato di cultori del buon bere, io mi sono avvicinato al vino non bevendolo, ma “leggendolo”. Mi piaceva leggere i territori del vino, abbagliato dai paesaggi e attratto dalle tradizioni enogastronomiche. Mi sono appassionato “sulla carta” delle zone del vino e del valore del vino in termini di immagine e prestigio. Un inizio che definirei teorico, quasi inafferrabile, ma bello. Poi ho iniziato a frequentare alcune aree di produzione. La prima in assoluto è stata la Valtellina che, non a caso, continua ad essere un territorio che mi ha dato molto. Con Pollenzo ho vissuto un’ascesa di interesse, ma anche di ricche opportunità, visitando importanti territori in Italia e in Europa. La passione si è intensificata grazie alla mia collaborazione con La Banca del Vino di Pollenzo, una sorta di museo del vino dove lavoravo nel weekend per pagare la retta dell’università. Grazie a questo progetto ho conosciuto tanti produttori e amici colleghi che si sono rivelati le mie guide alla conoscenza delle più profonde sfumature della Langa. Frequentare grandi figure del Barolo come Domenico Clerico, Elio Grasso, Bruno Giacosa mi ha permesso di capire tanto del vino come prodotto di territorio e di personalità.

Terrazzato in Valtellina – foto di Paolo Camozzi

Nel 2006 ho iniziato a collaborare alla Guida ai Vini d’Italia, allora co-prodotta da Slow Food Editore e Gambero Rosso; assistevo alle degustazioni, assaggiavo grandi vini dietro alle quinte ascoltando i commenti dei curatori, andavo a visitare vignaioli e produttori per redarre le prime schede. Questo avvicinamento al mondo della critica è poi quello che ha portato alla continuità che giunge ad oggi e al mio ruolo in Slow Wine.

Cosa insegni nei tuoi corsi?

Insegno ad appassionarsi al vino con leggerezza e consapevolezza che dietro ad un bicchiere c’è tanto, molto di più di ciò che appare. Svolgo corsi e serate in prevalenza di “avvicinamento al vino” secondo un approccio conviviale e non tecnicistico. I corsi li svolgo sia in autonomia sia per conto dell’associazione Il Tempo Ritrovato con cui ho un legame da quasi 10 anni. L’idea è di incuriosire i partecipanti con un’infarinatura che prenda in esame la storia di un vino, le particolarità del territorio di provenienza, l’identità del produttore, le pratiche agricole e di cantina, perché si comprenda la complessità del vino.

Il principio alla base è “conoscere aumenta il piacere”. I corsi devono, infatti, non perdere il legame con il piacere, con la curiosità di attivare i sensi e riconoscere se stessi nel bicchiere.

Parlaci del tuo ruolo all’interno di Slow Food e cosa significa interpretare in maniera slow il vino?

Come accennato Slow Food è stata per me la casa madre in cui ho esercitato il mio sapere sul vino. La Banca del Vino in primis, con cui tuttora collaboro, il progetto dei Master, la guida Vini d’Italia per un breve periodo, poi il pensiero condiviso con amici e colleghi nell’ideazione di Slow Wine, una guida di settore importante e rivoluzionaria. Il mio ruolo è trasversale, ma sicuramente incentrato su Slow Wine come prodotto editoriale che mi vede coinvolto come uno dei collaboratori principali e da un anno a questa parte come vice-curatore nazionale. Si tratta di un ruolo non solo di critica del vino, degustazione, visita alle cantine e redazione, ma di coordinamento dei lavori e delle figure che collaborano alla realizzazione della guida e di tutto ciò che ruota attorno alla guida. Slow Wine è anche un sito, da quest’anno (pandemia permettendo) anche una fiera di settore (www.slowinefair.slowfood.it) in cui promuovere il vino secondo l’approccio slow food del “buono, pulito e giusto”, è promozione del vino in occasione di eventi, cene, iniziative sui territori. Ecco, mi occupo di un po’ di tutto, con un affondo particolare per le regioni Lombardia, Veneto e Liguria.

Interpretare in maniera Slow il vino significa andare oltre il giudizio sensoriale e tecnico di un vino, ma guardare a questo affascinante prodotto, come risultato complesso della relazione tra terra e uomo; significa cogliere questa relazione e comunicarla. Tutto ciò non sarebbe possibile se dietro non ci fosse un approccio diretto, partecipativo e coinvolgente al vino. L’identità Slow si fonda infatti sull’importanza di avere un contatto tangibile con chi il vino lo pensa, lo disegna e lo fa. Per questo Slow Wine “va in vigna”, cioè io e i tanti collaboratori ogni anno investiamo ore e giornate per visitare vigne e cantine. Slow è anche sinonimo di un’attenzione e sensibilità sulla filiera del vino, a partire dal rispetto per l’ecosistema, fattore imprescindibile se si vuole parlare di qualità.

Sfatiamo o confermiamo qualche mito: il vino si può bere con la pizza? Pesce solo col vino bianco e con la carne ci sta bene solo il vino rosso?

Ecco le domande che mi piacciono meno. Scherzo naturalmente. Il mio approccio culturale al vino mi ha reso piuttosto distante dalle questioni legate al consumo e al rito degli abbinamenti. Cerco sempre di deviare e ricordare che è ben più importante assicurarsi che il vino sia di qualità (così come il cibo, del resto), magari frutto di una conoscenza diretta di chi l’ha fatto e di come l’ha fatto. Questo, a mio avviso, basta per approcciarsi al bicchiere con la giusta dose di curiosità, aspettativa e voglia di bere il vino. Assicurandosi anche di avere le persone adatte a fianco. Sugli abbinamenti mi piace dire che è importante rompere gli schemi e osare! Esistono manuali e pagine dedicate all’argomento e anche veri seguaci dell’abbinamento perfetto, ma la cosa mi annoia. Osare significa, tuttavia, non perdere la bussola del buon senso. Un vino leggero in termini di struttura, poco intenso, dai tratti freschi e delicati è evidente e auspicabile non metterlo a fianco di un piatto opulento e troppo invadente. Mi baserei su concetti macro di questo tipo, lasciando ampia libertà del provare ciò che più ci piace.

Leggi anche: Gerry Scotti, ecco il nuovo vino: il sogno di una tenuta tutta sua

A livello personale, posso assicurare che il matrimonio vino e pizza funziona benissimo. La pizza, nella sua ampia variabilità di gusti, si porta dietro salinità, croccantezza, acidità del pomodoro; l’apprezzo per esempio con un buon Lambrusco di Sorbara.

Cinque piccoli produttori che consigli, qualche chicca poco nota al grande pubblico.

Difficile e facile allo stesso tempo. L’Italia del vino di qualità è piena zeppa di validi produttori che hanno belle storie da raccontare. Slow Wine in questo può aiutare parecchio.
Mi limito a citare figure che hanno reso importante il mio percorso, per l’aiuto nel comprendere la bellezza del vino. Non si offendano gli assenti!
FAY, in Valtellina, nella figura di Marco Fay, la nuova generazione. Oltre a fare vini cristallini, precisi e fortemente identitari è una persona generosa che guarda al suo territorio con rara sensibilità.
FRATELLI AGNES, in Oltrepò Pavese, custodi dell’uva croatina e di un ricchissimo patrimonio di vecchie vigne, per vini (tra cui ottime Bonarde) che riescono ad essere tanto semplici quanto complessi.
CARUSSIN, nell’Astigiano, nella figura di Bruna Ferro, produttrice di Barbera d’Asti e di vini essenziali e contadini. La sua azienda è un insieme di luoghi da vivere per comprendere la trasversalità di questo mondo.
ALTURA, sull’Isola del Giglio, nella figura di Francesco Carfagna che ha scelto di vivere sull’isola e salvare paesaggio e identità locale, anche a costo di sacrifici e un mare di intoppi burocratici. Visitare la sua azienda significa riconciliarsi con il mondo della bellezza e della lentezza.
TENUTA DI FESSINA, sull’Etna, nella figura della compianta Silvia Maestrelli, donna del vino che ha investito prima di molti altri nel fascino eccezionale di questo straordinario territorio. I vini sono nitidi, tecnici, impeccabili, territoriali.

Valentina Colmi

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